In pochi “se la cercano”

In pochi “se la cercano”

Vagabondo, senzatetto, homeless, clochard, sono tanti i modi di etichettare chi non ha una casa e vive per strada ma, sicuramente, quello con il connotato più negativo è “barbone”.

Un termine che ci consente di mettere la giusta distanza tra noi, gente normale e coloro che “se la sono cercata”, perché sono dei fannulloni, perché non si adattano alla società, perché sono degli avanzi della società, perché non hanno voglia di reagire. Giudizi che – in realtà – sottendono delle modalità difensive che ci permettono, oltre che di prendere le distanze, di sentici diversi perché siamo dalla parte “giusta” della società.
Eppure basta un attimo per essere trascinati in una spirale che porta rapidamente allo stato di senzatetto.
Ci sono sempre all’origine di questa condizione una serie di eventi di rottura, separazioni, sfratti, istituzionalizzazioni, tossicodipendenze, perdita del lavoro, che hanno innestato meccanismi di impoverimento, emarginazione ed isolamento, di ritiro dal mondo esterno.
Quindi raramente si diventa homeless per scelta, quasi sempre – invece – all’inizio si viene espulsi dal sistema, diventando così degli emarginati, dei cittadini invisibili.

Fattori scatenanti

Se inizialmente la responsabilità di tale condizione può essere attribuita ad un fattore estrinseco non raramente, più tardi, fanno la loro comparsa anche fattori intrinseci.
Vivere in uno spazio pubblico significa vivere in uno stato di perenne allerta, i cicli del sonno non sono più rispettati, spesso il disagio e l’ansia creano depressione, fobie, attacchi di panico evidenziando un quadro di gravi disturbi della personalità.
Difficoltà che non scaturiscono però non solo dagli aspetti psicologici ma anche dalla quotidianità.
Vivere con i vestiti negli scatoloni, nella perenne attesa di un luogo permanente, la paura delle aggressioni, tra le tante privazioni che vivere per strada comporta, creano angosce e ossessioni che spesso si avvicinano alla follia.
Rivolgersi, seppure con vergogna, ai servizi pubblici per chiedere aiuto può garantire un posto dove dormire ma non un proprio spazio, un luogo che garantisca intimità, la domesticità (mobili, oggetti, biancheria) o socialità, il sentirsi cioè “di qualcuno”, quel punto da cui partire e a cui fare ritorno ogni giorno.

Avere una dimora infatti è molto più che abitare, significa avere uno spazio di relazioni, di rapporti interpersonali che fanno sentire la persona parte integrante di un territorio, di un contesto.

È questo stato di cose, tutte queste mancanze che generano e favoriscono “l’adattamento per rinuncia”, un processo graduale attraverso cui la persona può giungere a certi stati di emarginazione e di disagio caratterizzati da rassegnazione e chiusura con il mondo, quel mondo che li ha visti protagonisti di innumerevoli insuccessi, del mancato raggiungimento delle proprie mete esistenziali, tanto da abbandonare ogni prospettiva di benessere. È il passaggio che sposta l’identità da “persona in condizioni di difficoltà” a “persona senza futuro” una rassegnata accettazione della situazione in cui si trovano. Persone che si adattano a vivere senza niente, senza soldi, senza comfort, che rovistano nella spazzatura. Persone che arrivano ad avere paura dell’estraneo e che arrivano all’isolamento totale da ciò che li circonda. È un progressivo e lungo percorso di perdita di tutti quegli elementi che concorrono alla determinazione dell’identità. La mancanza di un documento di identità, di un numero telefonico, una patente, un conto corrente bancario, il cellulare e via dicendo, sono aspetti tutt’altro che banali perché rappresentano l’attrezzatura identitaria e la perdita della propria identità porta l’individuo a perdere anche la capacità relazionale, partendo da quelle relazioni più lontane e via via arrivando a quelle più significative, fino alla perdita della relazione con sé stesso e con il proprio corpo. È un crescente allontanamento dai legami sociali e l’abbandono di ogni appartenenza che compromette seriamente le possibilità delle persone di esercitare o riacquisire i propri diritti in un futuro. Un disagio multidimensionale che investe la vita di relazione, la salute, il lavoro, che porta anche al disagio psichico, al mancato rispetto del proprio corpo e spesso alla dipendenza nelle sue varie forme anche se, per ovvi motivi, quella da alcool è la più frequente.

Il Comitato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite (2012), definisce l’homeless come “una condizione umana caratterizzata dalla privazione continua o cronica di risorse, capacità, opzioni, sicurezza e potere necessari per godere di un tenore di vita adeguato e dei diritti civili, culturali, economici, politici e sociali”. Una inarrestabile scivolamento verso una condizione di morte civile e fisica insomma. La vergogna di non poter essere come si dovrebbe gli rende evidente la frattura tra sé e le persone normali e questa percezione accentua l’auto-disprezzo e l’odio di sé, facendolo chiudere ancora di più in sé stesso e portandolo ad attuare un atteggiamento ostile, sospettoso, depresso e ansioso, consolidando così lo stigma di persona strana, deviante, uno stigma che crea una sorta di prigione intorno al soggetto. La prigione di una categorizzazione: barboni, senzatetto, clochard, accattoni, senza compiere uno sforzo in più per cercare di capire quali sono le sfaccettature di una tale condizione. Abbandonando l’idea che la condizione di senza dimora non sempre è una scelta voluta, che non vanno criminalizzati solo per il fatto di esistere e di occupare degli spazi pubblici con il loto corpo. Dietro ad ognuna di queste storie c’è sempre una persona gravemente emarginata e perpetuare uno stereotipo non fa che confermare l’aspetto, i valori e i comportamenti dello stereotipo negandogli ogni possibilità di rinascita. È la normalità con cui guardiamo a queste persone che dovrebbe farci rifletterci perché qualche volta è molto più semplice categorizzare invece di pensare in modo critico all’individualità di una persona.

di Maria Teresa Lofari

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