
Mobbing in corsia, storie di esclusione e resistenza
La collaborazione è il cuore di ogni team sanitario ma quando il mobbing divide, le corsie delle strutture ospedaliere si trasformano in luoghi di isolamento e soprusi. Non esiste vaccino contro il mobbing, ma un antidoto sì: il coraggio di rompere il silenzio, denunciare e sostenere le vittime. Ne abbiamo parlato con la dottoressa bresciana Silvia Grazioli, autrice del libro “Ombre e luci in corsia”
di Vanessa Fieschi
Dietro i camici bianchi e i sorrisi rassicuranti, si nasconde talvolta una zona d’ombra fatta di esclusioni, umiliazioni, isolamento e, spesso, tanto silenzio. È il mobbing in sanità: una violenza invisibile che si consuma tra turni massacranti e corridoi affollati, dove chi dovrebbe prendersi cura degli altri finisce per essere ferito da chi gli lavora accanto. Non è un’eccezione, è una realtà diffusa, sistemica, e troppo spesso ignorata.
A raccontarlo, in un’intervista, è la dott.ssa Silvia Grazioli, medico radiologo e autrice del romanzo “Ombre e luci in corsia”, che illumina ciò che molti vedono ma pochi hanno il coraggio di denunciare. «In trent’anni di lavoro in diversi reparti e ospedali – spiega la Grazioli – ho visto e sentito raccontare episodi di mobbing e straining: ogni struttura ha le sue ombre e le vittime si ritrovano spesso sole, prive di strumenti di tutela efficaci».
Dai silenzi dei colleghi alla scarsa preparazione dei responsabili della salute dei lavoratori, fino alla difficoltà di ottenere giustizia anche per vie legali, il sistema sembra voltarsi dall’altra parte. Ma il sistema è fatto di persone. Persone che, ogni giorno, possono scegliere se essere complici o spezzare le catene invisibili che imprigionano troppe vite professionali e personali.
Dott.ssa Grazioli, perché ha deciso di raccontare una storia di mobbing in un contesto sanitario?
Il mobbing non l’ho solo visto, l’ho respirato. L’ho riconosciuto negli sguardi abbassati dei colleghi, nelle frasi lasciate a metà nei corridoi, nei silenzi che pesano più delle parole. Ogni reparto, ogni ospedale in cui sono passata, aveva la sua storia di esclusione, di prepotenza, di paura. All’inizio volevo raccogliere tante testimonianze, ma poi ho scelto di racchiuderle in un unico personaggio, volutamente senza nome e senza volto, che incarna la somma di tutte le esperienze. È una donna, con famiglia e carriera in crescita, che subisce un’escalation di vessazioni: dapprima episodi sottili e quasi invisibili, poi un mobbing strutturato, con un mobber principale, il suo “braccio destro” e colleghi che, per paura o convenienza, scelgono di non intervenire. Ambientare la storia in ospedale era inevitabile: è un luogo che dovrebbe proteggere e sostenere, ma può trasformarsi in un ambiente tossico, dove la negatività si diffonde a macchia d’olio e mina le fondamenta stesse del lavoro di squadra.
Quali sono le conseguenze del mobbing sul personale sanitario?
Le ripercussioni del mobbing sono profonde e multiformi. All’inizio la vittima tende a minimizzare, pensando di aver capito male o di essersi espressa in modo sbagliato, ma se le vessazioni non vengono fermate subito degenerano in isolamento sociale e professionale: esclusione da pause comuni, impossibilità di confrontarsi sui casi clinici o, addirittura, interdizione tacita da certi incarichi. Il mobber può estendere il boicottaggio ad altri reparti, creando una “terra bruciata” attorno alla vittima. Con il tempo questo logoramento porta a…
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