
Second Hand: tra moda, sostenibilità e contraddizioni
Il mercato dell’usato sta vivendo un vero e proprio boom. Trainato da una maggiore consapevolezza ambientale e dalla ricerca di soluzioni economiche più sostenibili, il second hand è passato dall’essere un’opzione marginale per chi non poteva permettersi il nuovo, a una scelta consapevole e, oggi, persino alla moda. Negli ultimi anni, le piattaforme online, i mercatini vintage e le iniziative delle grandi catene stanno trasformando il riuso in un fenomeno globale. Ma dietro al fascino del risparmio e della sostenibilità, si nascondono anche molte criticità. Senza dubbio, il riutilizzo degli oggetti – in particolare dell’abbigliamento – contribuisce a ridurre rifiuti e inquinamento. Ogni capo di seconda mano acquistato è un capo in meno prodotto, e questo significa meno emissioni di CO2, minore consumo d’acqua e uso più contenuto di risorse naturali. Tuttavia, il sistema moda resta tra i più inquinanti al mondo. La produzione di abiti, spesso a basso costo, si basa su materiali sintetici derivati dal petrolio e su processi altamente inquinanti per l’ambiente, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Secondo Greenpeace, l’Ue produce ogni anno 5 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, con l’80% che finisce in discarica o incenerito. E non solo: il 46% viene esportato in Africa, dove spesso causa disastri ambientali e sociali. In questo contesto, il second hand rappresenta sì un’alternativa valida, ma non una soluzione sistemica. Dal punto di vista economico, il second hand promette risparmio per chi acquista e un guadagno, anche se spesso minimo, per chi vende. In molti casi, però, vendere online oggetti usati si traduce in una vera e propria svendita, con profitti quasi simbolici a fronte di tempo investito, spese di spedizione e gestione. Allo stesso tempo, le grandi piattaforme di compravendita beneficiano in modo sproporzionato del boom dell’usato. Prendiamo il caso di Vinted, che ha costruito un impero sfruttando un modello in cui il rischio ricade interamente sugli utenti, mentre le commissioni e i costi (come le “spese di protezione”) garantiscono entrate sicure.
Anche la presunta convenienza dell’usato è da valutare con attenzione: alcuni capi, soprattutto firmati o vintage, hanno prezzi che superano quelli dei nuovi. E il low-cost dei fast fashion continua a esercitare una forte attrazione, alimentando il paradosso: compro usato, ma continuo a comprare troppo. Un aspetto spesso trascurato è l’impatto ambientale della logistica legata al second hand online: trasporti, imballaggi, consumo di elettricità per server e gestione delle piattaforme. Molte spedizioni avvengono via aereo, aumentando notevolmente l’impronta di carbonio di ogni transazione. Una possibile soluzione è incentivare gli scambi locali tra utenti, su distanze brevi, o promuovere il riuso diretto, tramite mercatini, swap party e donazioni. Anche semplicemente usare ciò che già si possiede è un atto di sostenibilità spesso sottovalutato. Oggi l’usato non è più sinonimo di povertà, ma di stile alternativo e consapevole. Celebrità e influencer sfoggiano capi d’archivio, i negozi vintage sono luoghi trendy, e l’estetica del passato torna a dominare le passerelle. Questo ha avuto il merito di riabilitare “culturalmente” l’abito usato, ma rischia anche di svuotare il gesto di significato, riducendolo a moda passeggera.
Il vero nodo, appunto, resta culturale: acquistare meno, meglio, e solo se necessario. Scegliere l’usato è una scelta positiva, ma non priva di ambiguità. Per essere davvero sostenibile, il second hand deve essere parte di un cambiamento più ampio, che metta in discussione la logica del consumo compulsivo e del profitto a ogni costo. Rendere più accessibile, etico e locale il mercato dell’usato è possibile. Ma richiede impegno, trasparenza e una reale volontà di cambiare, non solo una nuova moda da seguire.
La Direttrice Responsabile
Veronica Rodorigo

