
Ambiente, l’Europa “non sta bene”
C’era da aspettarselo, lo stato di salute dell’Europa non versa in buone condizioni. A confermarlo è il report della European Environmental Agency (EEA) presentato lo scorso 30 settembre a Bruxelles. Dati allarmanti, possibili soluzioni, qualche segnale rassicurante, c’è un po’ di tutto nel rapporto elaborato dall’Agenzia Europea dell’Ambiente, frutto di un lavoro a cadenza quinquennale (il primo report fu redatto nel 1995), che pone gli Stati del Vecchio Continente di fronte a delle scelte al dir poco “epocali”, perché tirano in ballo un futuro molto vicino, più di quello che pensiamo (e ancora non temiamo).
Il primo dato che emerge, in realtà, è sotto gli occhi di tutti da diversi anni: l’Europa è il continente che si riscalda più velocemente degli altri a livello globale e, di conseguenza, il più esposto ai pericoli dell’ormai sempre più evidente cambiamento climatico. I numeri, a leggerli, fanno paura: dal 1980 ad oggi l’aumento delle temperature ha causato circa 240.000 morti e un ammontare di perdite economiche pari a 738 miliardi di euro. Ma non solo. L’EEA ha evidenziato una drastica riduzione della biodiversità: a versare in pessimo stato vi è almeno l’80% degli habitat protetti mentre il suolo risulta degradato per il 60-70%. Preoccupa anche lo stato delle falde acquifere, compromesse almeno per il 62% dell’acqua disponibile, mentre lo “stress idrico” riguarda il 34% della popolazione europea. Questi sono solo alcuni dei dati emersi dalla ricerca. In ballo c’è anche l’agricoltura, l’utilizzo dei prodotti chimici, lo smaltimento dei rifiuti e, purtroppo, molto altro.
Ma l’Ue non rappresenta, ad oggi, un “modello” da seguire per quanto riguarda le politiche di transizione ecologica? Il report dell’EEA, finanziato (ricordiamolo) dalla stessa Unione europea, in parte lo conferma, almeno per le direttive e le politiche intraprese a “livello comunitario” con il Green Deal. È innegabile che la Comunità europea negli ultimi due decenni abbia intrapreso un percorso più attento in materia ambientale, raggiungendo risultati (anche se parziali) comunque importanti, come il miglioramento della qualità dell’aria e un aumento dell’utilizzo di energie sostenibili che è arrivato al 30% dell’approvvigionamento totale e ad una riduzione (a partire dal 2005) delle emissioni fossili pari al 35%. Ma resta quel 70% in cui la vecchia Europa resta ancora, ostinatamente, “fossile”. Bisogna cominciare a scindere le politiche “comunitarie” da quelle dei rispettivi governi che, in alcuni casi, sembrano andare in un’altra direzione.
In più passaggi del report, scienziati e studiosi si sono focalizzati sull’Europa meridionale come area principalmente critica e vulnerabile, guarda caso la più colpita da eventi atmosferici e dove i governi dei Paesi membri mettono in atto politiche ambientali spesso contradditorie. Tra questi spicchiamo noi. Negli ultimi vent’anni anche l’Italia, secondo il report EEA, ha portato a casa qualche risultato, tra cui un importante sviluppo dell’agricoltura biologica, una considerevole crescita delle fonti rinnovabili, riduzione delle emissioni di gas serra, nonché una apprezzabile estensione delle aree protette (negativamente controbilanciata dall’inarrestabile processo di cementificazione nelle aree urbane o comunque non protette). Bandiera nera invece per quanto riguarda le principali sfide ambientali e, di conseguenza, economiche, specie in materia di strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, gestione dei rifiuti, povertà energetica, nonostante il rapporto abbia rilevato per l’Italia un tasso elevato di riutilizzo dei materiali.
Quello che maggiormente preoccupa per il nostro Bel Paese, e che di fatto emerge dal report, è soprattutto la scarsa mobilità sociale relativamente alle politiche ambientali. Non è solo un gap di natura culturale (che comunque resta un problema da affrontare): mancano politiche di sensibilizzazione a livello istituzionale, se non proprio assenti quantomeno carenti, ma che sono necessarie e improrogabili in questa fase storica che stiamo vivendo. Lo ha ribadito a Bruxelles anche la giurista e politica spagnola Teresa Ribeira, vicepresidente esecutivo per la transizione pulita, giusta e competitiva della Commissione europea: «Bisogna anticipare gli scenari e preparare le persone a questi eventi catastrofici. Dobbiamo utilizzare al meglio le nostre capacità e formare i cittadini per renderli pronti a reagire».
Abbiamo scritto, qualche numero addietro, della “lezione di Valencia”: forse in Spagna il messaggio è stato recepito, tanto tra i cittadini quanto fra le istituzioni. Da noi invece? Tra le fila dell’attuale governo l’atteggiamento non sembra essere mutato, gli allarmi sono accolti come allarmismi. Sembra prevalere una logica (molto “italiana”, per dirla alla Boris) orientata su un vago “adattamento” rispetto ai cambiamenti climatici, atteggiamento che non solo ci rende inoperosi ma soprattutto poco consapevoli, tanto dei problemi che ci affliggono (e che ci aspettano) quanto delle contromisure da adottare. Ma questa è l’Italia: prima gli affari.
Il direttore editoriale
Matteo Picconi

