Operatori Socio Sanitari: perché sono violenti

Operatori Socio Sanitari: perché sono violenti

L’aspetto psicologico.

Se un tempo non troppo lontano l’anziano veniva accudito all’interno del nucleo familiare, gli attuali ritmi lavorativi e gestionali della famiglia vedono sempre più spesso la necessità di affidare i propri anziani a strutture che possano garantire un accudimento 24 ore su 24 e generalmente, queste organizzazioni sono le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali).
Le aspettative di vita rispetto al passato sono notevolmente aumentate e conseguentemente anche il numero degli anziani che necessitano di cure a lunga degenza è aumentato, come il carico di lavoro degli operatori delle RSA.
Il ricovero in una Struttura Residenziale può causare nell’anziano un disorientamento o una perdita dell’autonomia e dell’autostima per questo è importante la professionalità degli operatori che se ne prenderanno carico. All’interno di queste strutture, operano le figure professionali d’aiuto, alle quali è richiesta, tra le altre abilità, la capacità di saper “mantenere” la professionalità e competenza davanti alle situazioni di crisi. E’ questo carico di lavoro che rende tali operatori una categoria professionale particolarmente esposta al rischio di sviluppare un disagio da stress da lavoro-correlato.
Non solo l’aumento di lavoro, ma anche il continuo contatto con la sofferenza fisica e psichica di pazienti e familiari, la costante gravosa responsabilità che impone all’assistente di dover decidere fra ciò che l’assistito desidera e ciò che è meglio per lui, sono tutte situazioni che, interagendo tra loro, ne accrescono il rischio.
Il dover provvedere costantemente alle richieste di aiuto di persone poli-patologiche può portare l’operatore a sperimentare forti dinamiche emotive che orientano, a loro volta, il modo di relazionarsi del caregiver nei confronti del paziente e tale relazione è determinante per il rapporto con l’anziano, perché incide in maniera integrante sulla gestione globale di quest’ultimo.   Gestione che talvolta diventa un vero e proprio abuso. 

Gli abusi più frequenti

Nonostante ci siano poche informazioni sulla diffusione dei maltrattamenti/abusi nella popolazione anziana, diversi casi di cronaca ci orientano su un fenomeno che esiste e che sembra più diffuso di quanto possiamo immaginare. Secondo il rapporto pubblicato nel 2011 dell’OMS infatti, in Europa circa 4 milioni di anziani, ogni anno, sono vittime di abusi fisici e psicologici.
Sono svariati gli abusi che si possono perpetrare sugli anziani e che rientrano in queste due categorie: dalla costrizione fisica, alla negazione della dignità, come per esempio: lasciare l’anziano in abiti sudici, posticipare le sue richieste, la negazione della libertà di scelta nelle azioni di vita quotidiana, l’incuria intenzionale, la negligenza, la somministrazione eccessiva o insufficiente di farmaci e l’abuso. Da non dimenticare i veri e propri danni fisici che vanno dalle escoriazioni di lieve entità, a quelli ben più gravi, di fratture ossee e lesioni che possono portare a disabilità permanenti.
E’ da considerare in ogni caso che quando parliamo di maltrattamento agli anziani, oltre a quanto già citato quale esempio, intendiamo anche una qualsiasi inadeguata risposta nell’ambito di una relazione in cui c’è un’aspettativa di fiducia.  Il maltrattamento è anche una semplice mancata risposta del caregiver ad un bisogno dell’assistito. Evitare di compiere quelle azioni che garantiscono il benessere della persona anziana (o in qualunque modo bisognosa ed assegnata alle proprie cure), facendola sentire a disagio, minando la sua autostima, è a tutti gli effetti un maltrattamento.

Le cause alla base del maltrattamento

Spesso la causa di questi atteggiamenti inadeguati da parte del caregiver sono, seppur ingiustificabili, da attribuire allo stress dovuto ad elevati carichi di lavoro, che sono direttamente correlati al numero e alle caratteristiche dei pazienti assistiti. Quando le richieste sono sproporzionate, rispetto alle energie degli operatori, l’organizzazione è percepita come in adeguata, la mente mette in atto una sorta di difesa che – frequentemente – porta ad una dissociazione con un graduale distacco da se stessi e dall’utenza. E’ un prolungato logorio e una mancanza di sostegno che possono sfociare nel burnout che ha tra le sue caratteristiche la sensazione di estraneità, di irrealtà e disinteresse verso il proprio lavoro con rilevante compromissione delle capacità empatiche. Quella carenza di empatia che porta a non riconoscere l’anziano fragile come una persona ma a considerarlo invece solo come un oggetto di cura. Le cure non più centrate sulla persona ma solo ed esclusivamente come procedura diventano allora disumane.

Gli obiettivi della cura

L’attenzione a questo punto è focalizzata solo sul risultato, trascurando la procedura per ottenerlo. Procedure che se vedono come risultato una riduzione dei tempi, diventano procedure standardizzate e i pazienti (o gli ospiti) non sono più persone con bisogni e sentimenti ma meri oggetti del quotidiano lavoro.
Per questo il ricorso alla violenza (dall’urlo, all’umiliazione, allo strattone) fino alla coercizione, indica che l’attenzione è posta esclusivamente sul risultato, il quale potrebbe essere considerato come fine ultimo del proprio operato, tralasciando, invece, il fine superiore e cioè il benessere della persona che si assiste.
La necessità di sostituire la velocità alla lentezza, fa in modo che alcune violenze, anche fisiche, siano percepite come propedeutiche al risultato, all’esecuzione del compito assistenziale che però, anche in questo caso, viene snaturato perché non risponde più alla necessità di recuperare o mantenere il benessere fisico e psicologico del proprio assistito, ma diventa  solo un’azione prioritaria rispetto a quelli che vengono giustificati come “i capricci dell’anziano o dell’assistito”.
La volontà dell’ospite non viene minimamente tenuta in considerazione, quella volontà che non viene affatto riconosciuta e presa nella “giusta” considerazione già dal momento del ricovero. Volontà che, nella migliore delle ipotesi, resta in secondo piano rispetto alle strategie organizzative e ai tempi di esecuzione delle varie attività quotidiane delle RSA.§
Diventa quindi evidente che il comportamento degli operatori è però in linea con quello dell’istituzione, il disagio lavorativo, infatti, non è mai solo un problema dell’individuo ma è un sintomo che riguarda la patologia di un gruppo di lavoro, di un contesto aziendale, quel contesto che spesso pecca consapevolmente nelle strategie di pianificazione e organizzazione delle attività lavorative e, molto frequentemente, nella gestione delle risorse umane. La scelta di tali risorse, invece, dovrebbe tenere in considerazione anche alcuni aspetti personali della risorsa stessa perché in taluni casi la violenza trova origine anche nel vissuto personale dell’operatore.
Manca la consapevolezza che le abilità personali (relazionali ed empatiche) contano tanto quanto quelle tecnico–professionali, perché è da questa sinergia che dipende il benessere degli altri e la qualità dell’offerta assistenziale che deve trovare comunque il giusto equilibrio tra il sociale e il profitto.

di Maria Teresa Lofari

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