Il vigile del fuoco giramondo

Il vigile del fuoco giramondo

Intervista

Il Comandante Triozzi

Una carriera fatta di tanto studio, formazione, preparazione fisica, ma soprattutto passione e devozione per il proprio lavoro che non è più mero impiego salariato, ma una missione da organizzare, svolgere e portare a termine con successo. Non è la carriera di un calciatore, ma quella del vigile del fuoco, autentico eroe dei nostri tempi. Per capire bene come lavora e cosa fa un vigile del fuoco all’Onu, lo abbiamo chiesto al Comandante Robert Triozzi, nato a New York, ma di origini italianissime, Tenente dei Vigili della città di Harrison, poi Comandante dei Vigili del Fuoco delle Nazioni Unite, infine fondatore del Fire Rescue Development Program.

Comandante, ha iniziato la sua carriera negli USA. Com’è essere un vigile del fuoco di Harrison nello Stato di New York?
Come in tutte le altre città del mondo! Sono stato nelle caserme dei vigili del fuoco di ben 67 paesi e posso dire che, come tutte le altre cose, essere un vigile del fuoco è una scelta di vita. Non è una cosa che si butta lì, è necessaria parecchia preparazione, addestramento, allenamento e studio continuo.

Come è cambiato il lavoro del vigile del fuoco a partire dalla fatidica data dell’11 settembre 2001?
Da quella data la valutazione iniziale dell’intervento tiene in considerazione altri fattori, come il terrorismo ovviamente. Quel giorno, tutti pensavano si trattasse di un incidente, un aereo che si era schiantato contro le Torri Gemelle, le Torri erano alte e l’aereo volava troppo basso. Ci volle un po’ di tempo per capire cosa successe davvero. In alcuni interventi, oggi, è fondamentale risalire alla causa che li ha scatenati: perché è successo? C’è un approccio nuovo.
Però poi tutto il resto si svolge con le stesse priorità di prima. L’11 settembre, una volta appurato che non si trattava di un incidente bensì di un attentato, tutti gli sforzi si sono concentrati per sgomberare le Torri e non per spegnere l’incendio, giustamente.

Dopo aver fatto il Vigile del Fuoco negli States, per lei arriva l’ONU. Un vigile del fuoco nella Sarajevo del ’93-’94, non avrà avuto vita facile…
È stata una missione brevissima, di circa un mese. Eravamo in piena guerra, è stata davvero dura, lavoravamo sotto i bombardamenti, cercavo di dare una mano. In quell’occasione ho capito davvero che quello era il lavoro della mia vita, io volevo essere un vigile del fuoco e lavorare in quelle situazioni. La mia carriera nell’Onu è iniziata veramente proprio a Sarajevo.

Addirittura, in Kosovo, è stato forse l’unico a mettere d’accordo serbi e albanesi. Com’è stata quell’esperienza?
Sono stati i due anni più belli della mia vita, professionalmente parlando. Arrivai in Kosovo a luglio del ’99, agli inizi della missione, l’unica persona proveniente dall’Onu e dalla Nato che avrebbe dovuto effettuare un sopralluogo globale, di prevenzione incendi, di tutti i fabbricati che l’Onu doveva utilizzare per amministrare la provincia, che era della federazione Jugoslava, per essere precisi. Durante il sopralluogo è necessario anche valutare il corpo dei vigili del fuoco, perché se ho a disposizione una squadra “tosta e gagliarda” sto tranquillo, se al contrario ho “l’armata Brancaleone” devo compensare le loro carenze. Per mia stessa iniziativa illustrai la situazione e presentai un piano di riorganizzazione e di creazione di un corpo dei vigili del fuoco kosovaro, direttamente a Bernard Kouchner, il responsabile Onu per la missione in Kosovo, che rispondeva direttamente a Kofi Annan. Se si parla con una persona che non ha la capacità di decidere è uno spreco di fiato e basta: o ti fregano l’idea o hanno paura di te e ti mettono subito all’angolo. O entrambe le cose! Nel piano che presentai chiesi quindi tre cose: in primis il grado di Comandante dei Vigili del Fuoco dell’Onu; in secundis non volevo la responsabilità del comandante, ma l’autorità. La responsabilità, senza l’autorità, significa che tu sei la persona da rimproverare quando tutto va storto. Io volevo assumermi ogni responsabilità per i miei errori, ma non per gli ordini impartiti da altri. La terza cosa che chiesi fu quella di mettere in piedi una squadra internazionale dei vigili del fuoco con persone scelte solo da me che avrebbe dato vita al Corpo dei Vigili del Fuoco kosovaro. Non è stata una grande impresa mettere nella stessa squadra serbi e albanesi, sono tutti vigili del fuoco e sono lì per lo stesso obiettivo.

Che cosa è rimasto oggi del suo lavoro?
Nel 2019 ci siamo rivisti in occasione del ventesimo anniversario: c’erano tutti i pompieri di tutto il mondo che hanno lavorato con me a Pristina. Con grande orgoglio e commozione ho scoperto che tutto il mio lavoro svolto nel ’99 è ancora lì, ancora attuale, a cominciare dalla scuola di formazione: la mia idea era di creare una scuola di pubblica sicurezza, dove vigili del fuoco e polizia potessero ricevere la formazione nello stesso luogo. Non era una questione di “economia”, volevo creare un legame tra i due diversi Corpi: l’amicizia, il rispetto, la stima tra un giovane aspirante vigile del fuoco e un poliziotto, sin dai primi giorni di formazione, aiutano a creare, successivamente, una sinergia preziosa negli interventi.  La seconda cosa ancora in piedi è il numero unico di emergenza 112. Dal momento che era un numero nuovo, per aiutare la popolazione a memorizzarlo decisi di cambiare le targhe dei mezzi dei vigili del fuoco: non più sfondo bianco e scritte nere, ma rosse e con le stesse cifre all’inizio, 112. Gli altri corpi di sicurezza si arrabbiarono molto all’epoca, mi dicevano «Ma non puoi farlo!» – «Già fatto», rispondevo. Ecco l’autorità di cui parlavo. Solitamente in queste missioni, quando uno esce e l’altro arriva, smantella tutto il lavoro del predecessore. Lo stemma dei vigili del fuoco che creai all’epoca, venne cambiato con uno molto somigliante a quello svedese perché i nuovi capi erano scandinavi. Una volta terminata la missione Onu, i kossovari pretesero che tornasse il vecchio stemma creato da me. Anche quello è tornato, nonostante i tentativi di eliminarlo.

È stata sua l’idea di fondare quella che chiama la “legione straniera dei pompieri”, il Fire Rescue Development Program. Di cosa si occupa esattamente?
In Kosovo ho capito che nei paesi sottosviluppati, dove i vigili del fuoco non hanno niente,  è necessaria una squadra internazionale che va in giro per il mondo per formare questi pompieri e a prepararli ad affrontare varie tipologie di emergenze, soprattutto quelle legate alle grandi calamità, in attesa dell’arrivo degli aiuti stranieri. Così nacque Il Programma di Sviluppo dei Vigili del Fuoco. A mio avviso era compito dell’Onu creare una squadra simile, tentai anche, a Ginevra, di confrontarmi con L’Ufficio per la Coordinazione Aiuti Umanitari. Ma, come si dice a Venezia, “Faso tuto mi” e così ho messo in piedi l’ong. Siamo chiamati “legione straniera” perché proveniamo da vari paesi, ovviamente, circa quindici nazioni, e poi perché ci muoviamo in tutto il mondo. Proprio qualche giorno fa ci è arrivata una richiesta dal Kenya, riorganizzare l’intero Paese per quel che riguarda l’antincendio. Saranno sufficienti tre o quattro uomini, non di più: ognuno di noi parla diverse lingue e ha diverse specializzazioni pompieristiche e di soccorso. Così come abbiamo fatto in Montenegro o in Iraq nel 2003.

Nel 2019, un evento terribile ha scosso l’opinione pubblica di tutto il mondo: l’incendio della cattedrale di Notre Dame a Parigi. Lei è subito intervenuto per encomiare il difficile lavoro svolto dai vigili del fuoco francesi. Al di là della loro bravura e competenza, come si può evitare una simile catastrofe in futuro?
La parola esatta è proprio “evitare”, ossia far sì che non scoppi l’incendio: siamo nel campo della prevenzione. Innanzi tutto è necessario un impianto di spegnimento automatico, poi la compartimentazione degli ambienti. È chiaro che in alcuni luoghi, come Notre Dame, ma penso anche alle aerostazioni come Fiumicino, è impossibile. Però sono necessari dei sistemi di rilevazione di fumo, connessi ad una centrale. Tutti sistemi di prevenzione che non spengono l’incendio, ma lo arginano, lo circoscrivono nell’attesa degli interventi. Il lavoro dei Vigili del Fuoco francesi, bravissimi, tra i migliori al mondo, è stato proprio quello di evitare la propagazione delle fiamme, infatti la zona dell’altare è stata salvata. Quello che è bruciato è bruciato, occorre evitare di allargare il danno. Il problema di Notre Dame è che avevano davanti un’autentica foresta di legno, l’entità dell’incendio era pazzesca. Una situazione non troppo diversa dalle Torri Gemelle: per ottenere una struttura portante leggerissima, non l’hanno rivestita con il cemento. Se la struttura non collabora, la guerra è persa in partenza. La cosa grave è che non si tiene in considerazione la natura degli edifici e non si mette a punto un sistema di prevenzione ad hoc.

Nel 2016 ha assistito in prima persona all’inferno di Amatrice…
Fu un’esperienza molto interessante perché ho avuto un compito diverso, di cui non mi ero mai occupato in vita mia: la gestione dei campi per gli sfollati. Mi fu molto d’aiuto il lavoro che feci nei campi profughi in Iraq o in Etiopia, sviluppandone i piani di emergenza. Era necessario gestire un campo in cui alloggiare le persone con tutti i servizi necessari, un luogo che non era proprio casa loro. È facile dire “Semplice, basta che porti un tubo dell’acqua!”, ma non è proprio così, per ogni litro di acqua che entra bisogna considerare un litro di acqua che esce, quindi sviluppare innanzi tutto un sistema di fognature, per esempio.

Come si è mossa la macchina organizzativa italiana?
La macchina organizzativa si è mossa benissimo. Basti pensare che in quell’occasione incontrai dei vigili del fuoco russi che avevo conosciuto anni prima a Mosca, erano venuti per imparare, per portare il modello italiano nel mondo. Nessuno ha l’esperienza che abbiamo accumulato in Italia, soprattutto dall’Irpinia in poi.

Cosa ne pensa dei Vigili del Fuoco italiani?
L’asso nella manica dei Vigili del Fuoco italiani sta proprio nella loro organizzazione, ossia nella creazione, nel 1939 per idea del prefetto Alberto Giombini, di un corpo nazionale, con una scuola e quindi una formazione unica. Nel resto del mondo i vigili del fuoco sono amministrati o a livello comunale o al limite provinciale. Basti pensare che negli Stati Uniti, in comuni diversi, non è possibile nemmeno allacciare le manichette, perché hanno allacci diversi. Durante l’attacco alle Torri Gemelle, tutti i pompieri newyorchesi erano impegnati nelle operazioni di soccorso, ovviamente, quindi per far fronte alle altre emergenze erano venuti i vigili del fuoco dalle città limitrofe. Ebbene, non c’era una manichetta che potesse essere allacciata agli idranti newyorchesi! In Italia, da Trieste a Trapani ci sono gli stessi mezzi, la stessa e identica formazione, stessa terminologia. Non sto dicendo che tutti i vigili del fuoco italiani sono identici, attenzione: un vigile che opera a Trieste ha un’esperienza e una mentalità diversa da uno che sta a Trapani. Quando si trovano a lavorare insieme, ognuno apporta il proprio fondamentale contributo, pur provenendo dalla stessa scuola.
Abbiamo le migliori attrezzature al mondo e lo si vede in situazioni di grandi calamità, gli altri paesi non sono in grado di intervenire come i nostri vigili del fuoco. Un altro asso nella manica è il prefetto, ossia l’autorità del governo centrale a livello locale, quando un’emergenza richiede delle risorse, che vanno oltre le capacità di un dato territorio, la prefettura interviene tempestivamente nell’allargare la macchina dei soccorsi. Ad Amatrice come all’Aquila, avevamo tende riscaldate, marciapiedi di plastica, doccia calda, tre pasti al giorno, una immensa macchina logistica di sostegno ai soccorritori. A Fukushima, i vigili del fuoco dormivano nelle loro macchine! È un aspetto fondamentale perché un soccorritore adeguatamente rifocillato lavora meglio. In Russia hanno copiato alla lettera il sistema italiano, ma sono pochissimi i paesi in grado di mettere su un’organizzazione così complessa.
Il dramma dei vigili del fuoco italiani è che sono pochi, un organico insufficiente ormai. 30mila unità circa divise in quattro turni, significano 7500 unità sulla carta -escludendo malattie, ferie ecc.- Nell’intero Paese, se tutto va bene, abbiamo ogni giorno 7mila pompieri, nella sola città di Parigi ce ne sono 1800.

di Michela Di Gaspare

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