Tasche vuote e cuore a pezzi: la nuova vita di due milioni di italiani

Tasche vuote e cuore a pezzi: la nuova vita di due milioni di italiani

Un pasto buono

Una coda lenta, a un metro di distanza l’uno dall’altro, nella piena osservanza di quel distanziamento sociale che i tempi ci impongono, un distanziamento che non è solo fisico, ma anche e soprattutto spirituale. Ognuno procede a testa bassa, poca voglia di parlare, in fila con il proprio carico di sogni infranti, di illusorie “prospettive” – così le chiamano ai colloqui di lavoro per un misero contratto precario a pochi euro.

Il mercoledì pomeriggio dell’elegante Via Dandolo, nel cuore di Trastevere, a Roma, si apre così, tra il freddo pungente di una giornata invernale e l’indifferenza dei passanti, la mensa della Comunità di Sant’Egidio. Nata nel 1988, è aperta tre giorni a settimana, solo il pomeriggio, «ma per tre giorni c’ho un pasto bono assicurato – spiega un signore di mezza età, in fila per entrare, ad un altro, probabilmente nuovo del luogo e meno scafato – Oggi c’è la pasta al forno, capito che lusso?». I novizi nelle mense per i poveri non mancano, al contrario, il trend cresce in maniera preoccupante: la pandemia non è solo un’emergenza sanitaria ed economica, ma anche sociale. Non riguarda solo le persone più povere, che già vivevano per strada e restano comunque le più esposte all’’infezione.

Dati sconfortanti

Secondo il rapporto Istat, pubblicato lo scorso giugno, nel 2020, sono in condizione di povertà assoluta oltre due milioni di famiglie italiane (7,7% del totale da 6,4% del 2019), oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%) e 1,3 milioni i minori (13,5%). Dopo il miglioramento del 2019, nell’anno della pandemia, la povertà assoluta (è quando c’è un’assenza di un livello minimo di sussistenza necessario per il benessere di base n.d.r.) è aumentata, raggiungendo il livello più elevato dal 2005, quando è iniziata la rilevazione. Per classe di età, spiega l’Istat, l’incidenza di povertà assoluta raggiunge l’11,3% (oltre 1 milione 127mila individui) fra i giovani (18-34 anni); rimane su un livello elevato, al 9,2%, anche per la classe di età 35-64 anni (oltre 2 milioni 394mila individui), mentre si mantiene su valori inferiori alla media nazionale per gli over 65 (5,4%, oltre 742mila persone). Per quanto riguarda la povertà relativa (considerata stato di povertà in base al reddito procapite di una nazione n.d.r.), le famiglie, sotto la soglia, sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019).  I più “fortunati” non se la passano meglio: oltre il 60% delle famiglie italiane dichiara di avere difficoltà economiche ad arrivare alla fine del mese, 10 punti percentuali in più rispetto al periodo precedente la pandemia. È quanto emerge dalla quarta edizione dell’Indagine straordinaria sulle famiglie italiane e gli effetti della pandemia, condotta dalla Banca d’Italia, che scatta una fotografia del Paese in cui «le attese sulle prospettive dell’economia e sul mercato del lavoro sono migliorate», ma le famiglie restano caute e permangono le difficoltà.

Il povero vicino

Si tratta di un disagio di cui molti non vogliono sapere. Fingono di non vedere che là fuori, magari sullo stesso pianerottolo di casa – o peggio, in famiglia – ci sono tante persone che non hanno da mangiare. I “nuovi poveri”, li chiamano. Non è la povertà assoluta dei Paesi del Terzo Mondo, ma è sufficiente per costringerli a chiedere aiuto, spesso facendo i conti con l’imbarazzo di mostrarsi in fila per un pasto caldo, se non addirittura per un posto letto. Non sono clochard e neppure scansafatiche: spesso è gente che lavora ma non riesce ad arrivare neppure a metà mese, sopraffatta dalle spese correnti. Oppure si tratta di persone che hanno perso il lavoro o visto fallire la propria attività imprenditoriale. “Gente normale”, è l’etichetta ricorrente. La crisi economica prima e la pandemia poi, hanno aperto in maniera evidente la forbice. L’emergenza sanitaria non ha messo in risalto soltanto la crisi della sanità – in particolar modo l’accesso ai servizi, così come eravamo abituati da parecchi decenni – ma anche i risvolti sociali che stanno toccando tutti. La qualità dei servizi erogati dalla pubblica amministrazione è calata enormemente. In generale non c’è stato il cambio di passo che sarebbe stato legittimo attendersi una volta superata la sorpresa della pandemia. Doveva e poteva essere un’occasione di riscatto, di miglioramento (della burocrazia, dei servizi, ma anche della mentalità da parte di tutti), invece si è finito con l’innescare una guerra tra poveri, tra disperati. Travolti dal Covid-19, ci siamo accorti che gli “appestati” non sono più gli altri ma siamo noi.

In cerca di cibo

Fra i nuovi poveri che fanno la fila davanti alle mense di ogni città ci sono persone che hanno perso il lavoro, che hanno dovuto chiudere l’attività, fra cui un piccolo esercito di badanti e colf. Tanti stranieri, moltissime filippine e sudamericane. Colpito, in particolare, chi viveva di lavori saltuari, chi non aveva un contratto in regola. Ora sono in fila, a disagio, nelle mense che prima erano appannaggio quasi esclusivo dei clochard e che oggi sono fondamentali per alcune famiglie per riuscire a mettere un piatto in tavola: «Ho perso il lavoro da colf appena è scoppiato il Covid – spiega una giovane di nazionalità rumena in fila a Via Dandolo – Ho ripreso a lavorare da poco, ma tra affitto, bollette e spese, rimane poco per mangiare e quando posso vengo qui o vado in altre mense. Qui la mensa ha riaperto al chiuso, ma continuano a fare anche il take-away e io preferisco portare tutto a casa per non portare mia figlia con me». Più avanti, in uno dei mercati storici di Trastevere, appena i banchi cominciano a chiudere, tra gli schiamazzi dei bambini che giocano in piazza e qualche turista, si aggira una signora anziana tra gli scarti di frutta e verdura ammassati nelle cassette. La signora L. «Per carità, il nome no che me vergogno!», viene qui di tanto in tanto a raccogliere quello che tra gli scarti alimentari è ancora commestibile: «Non vivo da queste parti, prendo il pullman perché mi vergogno ad andare vicino a casa mia, lì mi conoscono tutti. Mio marito è morto quattro anni fa, però la pensione era pochina, pure quando lui era ancora vivo, ma ce la facevamo. Adesso, da sola, con settecento euro al mese è difficile. Ho due figli, ma quelli hanno già i problemi loro, non siamo ricchi e non lo sanno che vengo qui. Ma come devo fare? Ho limitato molto anche il mangiare in casa, se posso faccio senza medicine e non dover più comprare frutta e verdura è un bel risparmio». Tanta vergogna, ma sopratutto tanta dignità, anche quando, con una certa soggezione, le viene offerta una busta di spesa fatta al supermercato lì vicino. Bisogna toccarla con mano, la povertà, per capire quanto male possa fare: si manifesta anzitutto come mancanza di mezzi economici di sussistenza, ma assume anche il volto della solitudine, dell’abbandono, dell’emarginazione, specchio di quella carenza degli affetti che sembra ormai affliggere una moltitudine in continua crescita, costretta a vivere nascosta, dimenticata e umiliata. Nel 2009, Papa Benedetto XIV, in occasione di una visita alla mensa di Sant’Egidio proprio in Via Dandolo diceva: «Qui oggi si realizza quanto avviene a casa: chi serve e aiuta si confonde con chi è aiutato e servito, e al primo posto si trova chi è maggiormente nel bisogno. Mi torna alla mente l’espressione del Salmo (Sal 133:1 n.d.r.): “Ecco, come è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme”».

di Michela Di Gaspare

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