Il Governo dei migliori non è stato il migliore dei governi

Il Governo dei migliori non è stato il migliore dei governi

POLITICA

Cosa resterà del Governo Draghi

«L’Italia tradita», «Addio», «Vergogna»: da quando Mario Draghi si è dimesso, l’apparato mainstream è inconsolabile e piange un Paese orfano della sua guida illuminata e insostituibile. L’avevano ribattezzato “il Governo dei migliori”, quello che avrebbe rimesso in sesto le finanze pubbliche e ricollocato l’Italia nel prestigioso ruolo che le spetta nell’agone internazionale. Non è passato un solo giorno, sin dal suo insediamento, che qualche giornale ci facesse il resoconto dei “miracoli” del nostro super premier. Una luna di miele, un sodalizio indissolubile tra stampa e buona parte dell’elettorato a cui però non è corrisposta l’effettiva realtà dei fatti.

La narrazione politica

Per capire appieno la crisi di governo che si è consumata nelle ore più calde dell’anno, occorre partire proprio dal contesto culturale in cui si è inserita, pieno di ingenue narrazioni favolistiche e che consiste nell’idea che ci volesse giusto “lui” per risolvere i problemi: arriva nel paesino disastrato e coi suoi modi spicci e severi rimette tutto a posto. Un messaggio del genere, oggi come oggi, può andare bene per la sceneggiatura di un bel film o di una serie tv, ma nel mondo reale è un messaggio del tutto fuori luogo e, infatti, sappiamo bene come è finita: una classe politica modestissima fa apparire gigante chiunque si limiti perfino a fare l’ordinario, decidere per non decidere, così da tenere unite tutte le istanze contrapposte dei partiti di una variegata, stranissima maggioranza, senza perdere l’appeal dei “migliori”.

Sulla giustizia, sulla concorrenza, sulla delega fiscale, sul mercato del lavoro non ci sono stati provvedimenti che una maggioranza dell’85% e il migliore al governo avrebbero potuto giustificare. Nemmeno il Pnrr – dopo la compilazione dello scorso aprile – è partito sulla strada giusta e si è manifestata subito l’incapacità di mettere a terra i progetti proclamati.

Su tutte queste questioni i media sono stati afoni e distratti. D’altra parte gli economisti “che contano” ci hanno sempre spiegato che il primo parametro di cui occuparsi è lo spread. Se si alza significa che i mercati non hanno fiducia e alla peggio Bruxelles può mandare le lettere per far cadere i governi democraticamente eletti, come successe a Berlusconi nel 2011.

Spread nel giorno dellinsediamento di Mario Draghi: 92 punti base. Spread nel giorno delle dimissioni di Mario Draghi: 229 punti base.

Nel frattempo i cittadini italiani hanno subito un’erosione senza precedenti del loro potere d’acquisto e nel corso del 2022 un operaio perderà in media 1200 euro. Colpa dell’inflazione, della guerra, di Putin, della pandemia? Le cause certamente sono strutturali, ma un governo servirebbe appunto a mettere in campo misure per contrastarne gli effetti.

In Spagna, ad esempio, il governo Sanchez ha deciso di aumentare le tasse a banche e società energetiche per aiutare i lavoratori. In Italia ci si è limitati ad approvare un decreto chiamato pomposamente “Decreto Aiuti”, nella realtà una scatola vuota priva di misure significative: con l’ultimo decreto “Aiuti bis”, approvato ad inizio agosto, il taglio del cuneo fiscale sale dall’1 all’1,2%, una decontribuzione giudicata dalla Uil “comunque insufficiente” perché, a seconda dei redditi, aggiungerebbe appena da 1 a 6 euro in più al mese.

Sul fronte pensioni, l’anticipo parziale della rivalutazione pari al 2% porta a un incremento medio degli assegni previdenziali di circa 19 euro lordi al mese. In linea di massima, importi ben distanti dai 200 euro netti erogati col bonus una tantum di luglio.

Sullo stesso reddito di cittadinanza, costruito non come misura di sostegno stabile e universale, ma come un provvedimento provvisorio, quantitativamente insufficiente, il discorso del premier, lo scorso luglio in Senato, non presentava nulla di nuovo: «Ho detto quello che dovevo dire: il reddito di cittadinanza è una cosa buona, ma se non funziona è una cosa cattiva». Un colpo al cerchio e uno alla botte, sull’agenda sociale sembrava questa la strategia da adottare per tentare di ricompattare una maggioranza eterogenea e divisa anche su temi centrali quali RdC e salario minimo legale: anche su quest’ultimo, il richiamo dell’ex Primo Ministro era limitato alla contrattazione collettiva, cosa che avrebbe lasciato fuori tanti lavoratori con paghe molto basse e senza fissare una soglia salariale minima per legge.

Gli affari internazionali.

Nella gestione della crisi ucraina, il Governo ha dovuto fare i conti con la fragilità della sua maggioranza ma anche con alcuni errori strategici, malintesi e ritardi che hanno reso la linea di Roma incerta e inaffidabile per i partner. «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?», aveva dichiarato Draghi lo scorso aprile, per giustificare le sanzioni alla Russia che a suo dire erano «lo strumento più efficace per la pace». Ad oggi, della pace non vi è traccia, mentre i condizionatori li possono tenere accesi solo coloro che possono pagare bollette più che raddoppiate. Anche il Ministro degli Esteri ha commesso alcune leggerezze nella trattativa internazionale utilizzando toni eccessivi e arrivando a definire il presidente russo Putin «atroce» e che hanno portato Mario Draghi a fare da regista a tutto campo, dettando tempi e temi e scavalcando il vertice della Farnesina.  Anche con i riti della democrazia l’ex Primo Ministro ha avuto parecchi problemi. Il caso simbolo è quello dell’invio di armi all’Ucraina, con il quale il Governo è riuscito a calpestare in un’unica occasione Parlamento, Costituzione e cittadini. Per la prima volta l’Italia ha fornito armi ad un Paese in conflitto, superando con un decreto ad hoc la legge del 1990 che lo proibisce e allineandosi così agli altri 19 su 27 Stati membri dell’Ue che hanno deciso di inviare aiuti militari all’Ucraina invasa dalla Russia. In barba all’art. 11 della Costituzione, che prescrive che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti, il Governo ha stabilito una lista di armamenti da inviare a Kiev, il cui contenuto non è stato divulgato nemmeno ai parlamentari. Il tutto senza nemmeno tenere minimamente in considerazione il parere dei cittadini italiani, che tutti i sondaggi hanno rivelato fortemente contrari a fornire un appoggio militare.

La volontà dei cittadini

La cosa più grave che è passata in questi 523 giorni di Governo è che competenza e democrazia siano due valori opposti. Un populismo più raffinato e strisciante, insidioso, ha conquistato tutti all’insegna del “nessuno tocchi Draghi”, dietro il quale si è affollata una classe politica fallimentare. Come se la competenza escludesse la rappresentanza democratica e i migliori non potessero essere selezionati mediante elezioni democratiche. Certo non è una novità: ripetutamente nella storia è stato invocato il governo dei migliori, dei tecnici, dei professori o dei filosofi e al riguardo vi è una lunga e importante tradizione antidemocratica.

di Michela Di Gaspare

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