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Del seguente articolo:

settembre-dicembre/2007 -
Birmania: caccia al giornalista straniero, nove i morti tra la folla, più di mille gli arresti
Maria Luisa Venditti

Nei bilanci ufficiali della tragedia di fine settembre a Yangon, nel Myanmar (Birmania) nove i morti, 11 i feriti tra i manifestanti e 31 gli agenti del governo contusi. Tra le vittime anche un reporter giapponese, Kenji Nagai, 50 anni, collaboratore dell'agenzia stampa giapponese Apf. Nagai è stato freddamente assassinato, come evidenziato in un crudo realismo nella sequenza delle foto della sua morte, dal fuoco dei militari del sanguinoso regime di Than Shwe nel corso della manifestazione contro il governo. La prova che il reporter sia stato deliberatamente assassinato è nelle immagini di un video che hanno ha registrato gli ultimi terribili istanti della vita di Nagai e che smentiscono la versione ufficiale della giunta secondo la quale l'uomo sarebbe stato ucciso da "un proiettile vagante". Dal video, che è stato trasmesso ripetutamente dalla televisione giapponese, si vede Nagai che viene sbattuto violentemente a terra da un soldato che poi gli spara a distanza ravvicinata.
Un medico dell'Ambasciata giapponese in Birmania ha confermato che un proiettile ha perforato il cuore di Nagai, riuscendo dalla schiena. Qualche secondo prima che fosse assassinato, il fotoreporter stava riprendendo le cariche della polizia contro i dimostranti. Tokyo ha inviato a Rangoon il numero due del suo governo per stabilire la verità sulla morte di Nagai.
Negli scontri sarebbe morto anche un altro reporter tedesco, ma la notizia non è stata confermata né si hanno altre precise indicazioni. Secondo l'agenzia tedesca Dpa il secondo fotoreporter ucciso a Yangon sarebbe stato colpito mentre tentava di superare un cordone della polizia nei pressi della pagoda di Sule. Proprio l'assenza di notizie precise, l’incertezza che accompagna gli eventi di quelle tragiche ore, sono le testimonianze della grave repressione sul popolo. Il sanguinoso attacco contro i manifestanti per la democrazia nel Myanmar, scatenato dal regime birmano per porre fine a settimane di proteste, ha dunque generato un dramma assai più alto delle cifre ufficiali.
Dopo due giorni di violenze nelle strade di Yangon, anche il principale collegamento a Internet in quello Stato ha smesso di funzionare. Un responsabile birmano delle telecomunicazioni ha genericamente attribuito il problema a “un cavo subacqueo danneggiato” come poi è stato anche dichiarato sotto anonimato alla France Presse da un responsabile dell'azienda delle telecomunicazioni dello Stato. Proprio quella stessa rete che, nei giorni più duri della repressione, aveva diffuso immagini e testimonianze di quanto stava avvenendo nel Paese.
Le voci che dalla capitale Rongoon riescono a superare divieti e censure, arresti, morte e black out, hanno però diffuso cifre molto diverse. Decine e decine i morti, destinati quindi a restare senza nome. Nelle notti più pesanti sono stati rastrellati sei monasteri nei dintorni della capitale e un totale di almeno 850 monaci è stato trasferito nelle carceri militari. In carcere, però, sono stati anche portati artisti, letterati, attori, tutti coloro che avrebbero potuto coordinare, animare e trascinare la protesta fra i quali anche un famoso attore del paese e il poeta Aung Way. Rangoon era il vero nome della capitale della Birmania che i militari nel 1989 fecero diventare prima Yangon e poi Myanmar.
Una voce anonima dalla capitale, in una delle poche telefonate filtrate tra le maglie della censura ha esordito con la drammatica frase “il massacro è cominciato, i militari sparano ad altezza uomo sui manifestanti; non si sa quanti siano i morti ma chi ha potuto vedere dall'alto dei palazzi parla di decine di manifestanti abbattuti; i militari dai megafoni avvertono che sarà aperto il fuoco senza altri avvisi contro qualsiasi sbarramento”. La repressione ha quindi avuto cifre che si possono solo immaginare ma evidente il terrore nei volti impauriti, gli occhi persi, le teste rasate che si muovevano in fretta, le lunghe tuniche monacali impropriamente sgargianti nell’occasione e i piedi scalzi sotto la pioggia delle migliaia di monaci che avevano lasciato i conventi ed erano scesi in strada. Alcune voci ipotizzano sul migliaio i loro arresti durante la notte, presi direttamente dai monasteri e portati nelle carceri militari. Ma la protesta dei monaci cammina nel mondo - Carità e povertà: di questo vivono i 350 mila monaci buddisti birmani. Non hanno nulla, non temono nulla e per questo la loro protesta spaventa il regime. Si svegliano prima dell'alba, pregano, escono dai monasteri con la loro ciotola nera per chiedere offerte e poi tornano nei monasteri. Ora tutto il mondo li guarda e li ammira. E marcia con loro. L'Europa ha deciso sanzioni. In tante città, a cominciare da Roma, sono in corso manifestazioni e sit-in in cui la partecipazione è trasversale e bipartisan.
Bloccati i monaci dopo i rastrellamenti notturni, non li si sono più visti nelle strade che sono state invece occupate dai civili: un passaggio di testimonianza e di lotta assai più che simbolico. La folla è stata dispersa con gli spari anche dalle parti della pagoda di Sule, uno dei due fronti della protesta. Poco lontano, nella stessa giornata, i soldati hanno nuovamente sparato contro altri 10 mila manifestanti. Anche qui almeno un centinaio gli arrestati. Sin dai primi giorni della repressione di fine settembre, la polizia militare gira nelle strade a bordo di camion, indossando grandi foulard gialli, in tenuta antisommossa. Sempre nella zona della pagoda di Sule la polizia ha fatto irruzione nell'hotel Traders a caccia di giornalisti che si erano presentati come turisti e i pochi reporters presenti in Birmania prima che scoppiasse la protesta, sono stati allontanati.
Quella della Birmania è una lunga storia di oppressione militare che risale, almeno dal 1962, quando i militari presero il potere. Uno dei momenti pià drammatici è stato il 1988 quando la rivolta fu schiacciata con un bilancio di tremila morti. Questa volta, oltre alle ragioni di sempre, la causa della protesta è nell'aumento folle di beni di primo consumo come petrolio, diesel e gas naturale cresciuti dal 66% al 535%. Un aumento insopportabile per i livelli della popolazione.


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