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Del seguente articolo:

settembre-dicembre/2007 -
Così si uccide la libertà di stampa
Andrea Nemiz

Forse è già stato dimenticato, il fotografo giapponese di 50 anni, molto lontano da noi, lontano dalle nostre news, lontano dai nostri periodici che è stato assassinato a freddo nei primi giorni di settembre in Birmania. Kenji Nagai era un 'video' e 'foto' reporter che lavorava per una grande agenzia di informazione del suo Paese, oltre che per un'importante rete televisiva. Con il vortice dei moderni mezzi di diffusione, le sue immagini hanno senza dubbio raggiunto anche l'Italia e non si saprà mai quante di esse siano passate davanti ai nostri occhi.
Senza dubbio anche lui, in prima linea, chissà quante volte ha rischiato la revolverata alla nuca, o la raffica di mitra con la quale è stato bloccato il suo lavoro. Certo, proprio il suo lavoro, come spesso si è detto: si spara sugli operatori dell'informazione per non fare diffondere verità scomode, non gradite, o per mascherare opportunamente tutte le false verità che qualsiasi potere, sia esso di regime dittatoriale o a volte anche 'democratico', non vogliono che sia comunicato all'esterno dei propri confini.
Ma non solo, in Birmania, dove la rivolta dei monaci festosamente sgargianti nei loro abiti d'arancio, veniva denunciata al mondo, la prima mossa efferata del regime è stata quella non solo di mietere vittime inermi e innocenti ma anche, e soprattutto, di bloccare i provider che diffondevano notizie e immagini su internet. E per di più, instaurando una vera e propria 'caccia' al giornalista.
Il nome di Kenji Nagai è stato l'ultimo di un tremendo infinito elenco in cui spiccano anche i nomi di tanti fra i reporter italiani che negli ultimi anni hanno pagato con la vita il loro duro lavoro di informazione. O di controinformazione. Donne, uomini, disarmati, forti solo del loro taccuino, di camera o telecamera, digitali e non, sono andati alla guerra ben sapendo cosa poteva accader loro ma anche tentando di esorcizzare, magari con qualche classica o trita battuta di rito un fosco pericolo che ben sapevano incombeva su loro, ma del quale non volevano assolutamente considerare nel giusto conto. Sia loro stessi che tanti, tanti altri che, magicamente, sono riusciti a non incappare in qualcuno di quei tragici eventi che la vita in prima linea mette costantemente di fronte a tutti.
Nel servizio che pubblichiamo a pagina cinque, alcune considerazioni, apparentemente ovvie ma in realtà molto serie e attuali, fatte dalla "signora del fotogiornalismo italiano", Grazia Neri, che assieme al figlio Michele, dirige l'omonima agenzia di informazione. Con le immagini che distribuisce da e per tutto il mondo, nel suo portfolio l’Agenzia annovera nomi tra i migliori fotografi di guerra. Uomini che operano spesso con grande discrezione e rispetto per il dolore, nei fronti di battaglia e nei territori dove il sangue scorre a fiumi. Un classico esempio è l’immagine del dolore di una donna araba nella quale il grande fotografo James Nachtwey, tutto dice senza infierire sul volto della disperazione.


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