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Del seguente articolo:

Aprile - Giugno/2020 -
Società e politica
Il fascismo immaginario
Michela Di Gaspare

Il nemico inventato non è di sinistra.

«Tutto quello che è a destra diventa fascista. […] Non approvo certe equiparazioni. Bisogna abituare le giovani generazioni all’arte della distinzione». Così Giorgio Amendola, uno dei capi della Resistenza, rispose allo storico Piero Melograni che gli chiese se ci fosse un abuso del termine fascista. Era il 1976.
Quante volte si ritrovano sui giornali o sui principali mezzi stampa, di una certa parte politica, le parole razzismo, intolleranza, odio, pulizia etnica, fascismo? Parole gravi, che pesano come macigni, parole inflazionate, liofilizzate, totalmente svuotate del loro significato e, cosa ancor più grave, usate come sinonimi, totalmente intercambiabili. L’argomento fascismo è del tutto pretestuoso e fuori tempo massimo. Non esiste il pericolo di un ritorno al fascismo, esiste semmai il pericolo che nelle righe della lotta ai fantasmi del passato, del razzismo, dell’odio indiscriminato si rafforzi un nuovo tipo di fascismo, privo di connotazione storica: l’intolleranza nei confronti di chi ha idee diverse dalle proprie, che non si conformano al pensiero dominante.
Certa parte politica abusa di queste parole e le usa come manganelli per zittire tutto ciò che è dall’altra parte, sommariamente e indiscriminatamente. In particolare sul fascismo è in atto una pericolosa operazione di mistificazione della storia, una cattiva abitudine del mondo progressista ormai intellettualmente indolente, che non ha più idee forti da proporre e si trincera nella vecchia retorica, non stimolando i giovani a studiare – bene – la storia e impartendogli delle lezioni di superficialità.
Si parla a sproposito di fascismo, lo si paventa in agguato dietro ogni angolo, studiando pochissimo – e omettendo – quel che fu davvero. Si auspica il ritorno di una nuova “Resistenza”, insultando la memoria di quella vera e ignorandone – ed omettendone – le contraddizioni e gli errori. Il rischio è che a vedere fascisti dappertutto (senza camicie nere, senza passo dell’oca e senza manganelli) si distolga l’attenzione da altre minacce, queste sì, reali, che incombono sulla democrazia e che nulla hanno a che fare con il fascismo. O razzismo che dir si voglia. “Fascista” è l’etichetta da incollare sulla fronte dell’avversario politico per delegittimarlo, un nemico pubblico inventato ad hoc per dare agio ad una masnada di ignoranti della storia, nati dopo la Resistenza, la possibilità di esibire il proprio buonismo affettato.

Il vero aspetto del razzismo italiano

Il linciaggio collettivo andato in scena lo scorso ottobre su media e agenzie ne è un esempio: collegare l’immensa figura morale e storica della senatrice Liliana Segre all’istituzione di una commissione per il contrasto dei fenomeni di razzismo è pura propaganda di chi insiste nel tentativo di demonizzare l’avversario politico, un intento muscolare che non vedeva protagonista, ovviamente, la Senatrice, ma chi l’accompagnava e voleva una commissione-bavaglio.
Nessuno ha mai messo in dubbio la buona fede della Senatrice Segre ma è stato stigmatizzato il tentativo di usare la mozione come pretesto per misure censorie contro il dissenso. Censurare il dissenso è quello che fanno i regimi, comunisti o fascisti che siano.
Ci si chiede lo scopo di una nuova commissione contro odio e razzismo. Il nostro codice penale evidenzia – giustamente – già numerose fattispecie, perseguite con severità. Le minacce alla senatrice Segre sono frutto di menti malate, ma l’Italia non è un paese razzista e non recepisce il razzismo come tema egemone della quotidianità. Il tentativo è quello di creare un fenomeno, nei fatti, inesistente. Lo conferma l’Osce-Odhir con il report sui cosiddetti “hate crimes”. Stando ai dati riportati, per l’anno 2018, gli atti violenti a sfondo razziale – 186 in totale – coprirebbero lo 0.0021% rispetto all’intera popolazione residente in Italia. I “crimini a sfondo razziale” – 1111 – lo 0,02%, arrotondando per eccesso.
Ironia della sorte, secondo l’ultimo rapporto Eurispes il 15% degli italiani nega la Shoah, di questi il 23,5% fa parte dell’elettorato di centrosinistra. L’Olocausto perpetrato dai nazisti con il contributo dei fascisti, negato dalla sinistra è aberrante. E non solo la Shoah, se lo scorso 10 febbraio, anche parte del buon mondo progressista ha scoperto odio e veleno riversandolo sul presidente della Repubblica, reo di aver definito le Foibe una «sciagura nazionale» ed esprimendo solenne condanna per chi nega quella tragedia. Sui social lo hanno coperto d’insulti.

Fake news

Quando la forza delle idee non basta, pur di distruggere l’avversario, s’inventa. Come l’“affaire Sondrio” (dicembre 2019), in cui si è arrivati a speculare sul dolore di una giovane mamma nigeriana, a cui va totale solidarietà, per la perdita della sua bambina. Peccato che gli insulti a matrice razzista che le sarebbero stati vomitati addosso e riportati puntualmente in un post su Facebook dalla sedicente testimone, nonché esponente politica, siano stati smentiti dal personale ospedaliero del pronto soccorso, dai Carabinieri e dalla mamma stessa. Il post è stato ovviamente rimosso e sostituito con un altro dai toni molto più morbidi: niente invettive urlate in faccia alla povera nigeriana, ma solo, probabilmente, commenti bisbigliati tra alcuni presenti. Il mainstream è pieno di notizie – vere o presunte tali – a supporto della malafede radical chic lontani dalla forza storica della sinistra italiana, famosa per essere popolare e non elitaria.
L’ultima fake news risale ad inizio febbraio, all’inizio dell’emergenza sanitaria, e vede protagonista un docente dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone che avrebbe reso noto un episodio di razzismo nei confronti di alcuni cinesi, vittime di una sassaiola, scatenando reazioni politiche di condanna contro l’ignobile gesto. L’insegnante aveva riferito informazioni raccolte da un’altra professoressa, che a sua volta aveva appreso il fatto da una studentessa di origini cinesi. Quest’ultima sarebbe venuta a conoscenza di imprecisati episodi di intolleranza da una chat seguita da suoi connazionali. A trasformare il contenuto di tali informazioni nella sassaiola di Frosinone, mai avvenuta, un errato utilizzo del traduttore di Google. Chiarito l’equivoco, il professore è stato denunciato per procurato allarme.

Il Caso Sars CoV 2

Poi è arrivata l’emergenza sanitaria. Il pericolo era (oggettivamente) proveniente dalla Cina ed era da quella direzione che si dovevano prendere provvedimenti, prima delle misure di prevenzione sono usciti gli hashtag: #abbracciauncinese e #jenesuispasunvirus. Sono arrivate le visite solidali del Presidente della Repubblica ai piccoli scolari orientali e del sindaco di Milano, fotografato nella Chinatown meneghina. Iniziative lodevoli ma il nemico non era il cinese, bensì – per dirla alla Trump – il “virus cinese”. Quando ad inizio febbraio i governatori delle regioni del Nord Italia, chiedevano, con buonsenso, di mettere in quarantena i bambini di ritorno dalla Cina o il virologo Roberto Burioni, negli stessi giorni, auspicava la quarantena per chi tornava dalle zone già colpite da Covid-19 (la Cina), si sono ritrovati protagonisti di una assurda gogna mediatica. Tra accuse di razzismo, “fascioleghismo” e battute di scherno sull’eventuale incompetenza scientifica. Per il Presidente del Consiglio era sotto controllo.
La prudenza è stata scambiata per razzismo, come se la priorità numero uno fosse stata quella di dimostrare apertura mentale e un’ostentata correttezza politica, trascurando le reali possibilità di contagio. Come se il virus fosse una cosa di destra, fascista e razzista e la quarantena una pratica discriminatoria da allontanare con orrore. A questo proposito, ad inizio marzo, un senatore pentastellato si è lasciato andare ad un post azzardato, arrivando a paragonare gli italiani colpiti da coronavirus ai migranti: «Forse ora inizieremo a capire cosa vuol dire essere respinti solo perché si proviene da un paese diverso, essere tenuti segregati contro la propria volontà, magari lontano dalla propria famiglia, perché considerati appestati, essere guardati con sospetto o addirittura con paura […]». Come se essere respinto per una immigrazione incontrollata ed essere sottoposto a misure preventive, a tutela della salute di tutti, fosse la stessa cosa.
Sia ben chiaro, il razzismo – laddove esista – va combattuto, ma se tutti siamo razzisti, come buona parte degli pseudo intellettuali radical-chic sostiene, allora nessuno è razzista.
Se affermare che i flussi migratori vadano moderati, denunciare l’insicurezza presente nelle periferie di tante nostre città, se scrivere in un articolo la nazionalità di chi commette un reato (nel 2019 un reato su tre è commesso da uno straniero) è razzista, allora il problema non è più il razzismo, ma tutto quello che di soppiatto stiamo infilando dentro la categoria “razzismo” per zittire l’avversario che non riusciamo a mitigare con la forza delle idee.

Il dito e la luna

L’errore è sempre lo stesso: guardare il dito e non la luna, cercare di nascondere sotto il tappeto dell’antifascismo, le malefatte, le opacità, le politiche assai discutibili di questi ultimi anni, la svendita del patrimonio nazionale (in termini di aziende e di processi decisionali) in nome di un più imprecisato europeismo che non mostra la solidarietà che va sbandierando. Sembra che un certo establishment, sia pronto a svendere gli interessi nazionali di tutti per assicurarsi interessi propri. La premura per gli immigrati (utilissimi ad un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la pressoché totale dimenticanza di chi – a parole – è vicina ai poveri e al ceto medio impoverito.
Sposare cause sovranazionali, come Europa, Mediterraneo, umanità, finanza, mentre la nazione e gli interessi nazionali vengono ricondotti al nuovo fascismo, rimanendo distaccati dal fatto che a Bruxelles né tedeschi né francesi – tanto per citarne alcuni di centro-sinistra – dimentichino anche solo per un attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese.
A proposito di fastidiosi pregiudizi culturali, il 2 aprile scorso, il quotidiano tedesco Bild Zeitung – il più venduto in Germania – ha dedicato un’intera pagina all’Italia sulla lotta al coronavirus. A prima vista sembrerebbe un bellissimo gesto distensivo, dopo giorni di intense polemiche sui coronabond e sulle politiche economiche da attuare per far fronte all’emergenza. In realtà ad una lettura più approfondita – ma neanche tanto – si desume la carica ironica del messaggio, un tripudio di stereotipi e cliché che ben evidenziano come ci vedono in Germania: «Volevamo sempre essere un po’ come voi. Con la vostra rilassatezza, la vostra bellezza, la vostra passione. Volevamo saper cucinare la pasta come voi, bere Campari come voi, amare come voi. La dolce vita. Per questo vi abbiamo sempre invidiato […] ciao, Italia. Ci rivedremo presto. A bere un caffè, o un bicchiere di vino rosso. In vacanza oppure in pizzeria».
«Dovrebbe essere evidente che gli aiuti finanziari in Italia – dove la mafia è una costante a livello nazionale e sta solo aspettando una nuova pioggia di soldi da Bruxelles – dovrebbero essere spesi solo per la salute e non dovrebbero finire nei sistemi sociali e fiscali italiani. E, naturalmente, gli italiani devono essere anche controllati da Bruxelles e dimostrare che stanno usando i soldi correttamente», scriveva il Die Welt lo scorso 9 aprile.
Ma qui nessuno grida al razzismo (e ci mancherebbe). Noi italiani non ce ne vogliamo.


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