Direttore Responsabile Leandro Abeille


 
home
sommario
noi
pubblicità
abbonamenti
mailinglist
archivio
utilità
lavora con noi
contatti
ARCHIVIO

Del seguente articolo:

giugno- luglio/2004 -
L'apartheid in Sud Africa -Juliette Binoche, poetessa e giornalista-
Dimitri Sassone

La violenza dell’uomo, qualsiasi sia la sua nazionalità, sta mostrando il suo volto più truce in Iraq. Americani che torturano i prigionieri rinchiusi nel carcere di Abu Harabib, li ammassano nudi uno sopra l’altro come scatole vuote, li tengono al guinzaglio, li fotografano. Dall’altra parte guerriglieri iracheni decapitano davanti alle telecamere un occidentale e mandano in giro per il mondo immagini che suscitano orrore. È questa la violazione dei sentimenti umani più elementari, la violazione di qualsiasi norma civile e giuridica sancita nel tempo che impone che i prigionieri siano trattati con umanità e con rispetto. Una norma purtroppo spesso ignorata.
Il cinema ha costantemente raccontato queste situazioni, così come ha assunto tra i canoni del racconto la violenza. Filoni filmici sono quelli della guerra, degli scontri tra bande, dello spionaggio, dell’horror, con la differenza che al cinema tutto è finzione, trucco e invece le cronache si riferiscono a situazioni reali. Chi va al cinema vuole provare reazioni ed emozioni, dalla paura, alla repulsione, alla condanna. Sta allo spettatore non dimenticare mai che sta assistendo ad uno spettacolo allestito con tutti i mezzi che da tre quarti di secolo l’industria del cinema ha messo in campo dove, tanto per fare un esempio, il sangue non è sangue e gli spari non sono spari, i morti non sono morti. Film violenti imperversano sugli schermi. C fermiamo su uno in particolare.
Juliette Binoche, la diva francese di grandi registi come Goddard, Louis Malle, Kieslowski, la raffinata interprete de Il paziente inglese (Oscar 1997), de Il danno, e di Chocolat, offre, col film in programmazione “In my country” (Nel mio paese) un’altra prova della sua sensibilità e della sua propensione per ruoli di forte impegno civile e morale, per temi che scavano nel cuore dell’uomo, ne mettono a nudo le nefandezze che è capace di compiere, con le inevitabili, anche se differite nel tempo, conseguenze sul piano penale, etico; col rimorso e il pentimento, a volte col suicidio, sempre con la condanna della storia.
“In my country”, il regista John Boorman, un maestro del cinema che ha passato molti anni in Sud Africa e da molti è accostato a John Huston, scoperchia quella pagina orrenda della apartheid in quel lontano lembo del continente africano, che non fu solo separazione tra i 4 milioni di colonizzatori bianchi e i 30 milioni di neri schiavizzati, ma fu soprattutto persecuzione di questi ultimi, considerati essere inferiori, torturati, violentati e uccisi. Senza risparmiare nessuno, né vecchi né bambini. Giustizia, in qualche modo, fu resa a Nelson Mandela, eletto presidente dopo la lunga carcerazione e insignito del Nobel, e all’arcivescovo Desmond Tutu, anch’egli Nobel.
La Binoche, nella parte di Anna Malan, una poetessa e giornalista nata in Africa da famiglia bianca, benvoluta dai neri, segue il processo nel quale ai responsabili dei crimini viene offerta l’amnistia a patto che dimostrino di aver agito per eseguire ordini che non potevano disattendere.
Le verità che mano a mano si svelano a lei e a un inviato del Washington Post (Samuel L. Jackson) – un nero d’America inizialmente scettico e distaccato - sia nel corso del processo, che attraverso proprie indagini (i due scoprono una casa delle torture e inducono alla confessione anche il capo dei torturatori, De Jager) portano Anna da un lato a una nuova relazione sentimentale (era già sposata ad un bianco e aveva tre figli) col collega e, dall’altro, a scoprire che l’orrore si nascondeva nella sua stessa famiglia: uno dei killer era il fratello, che placa vergogna e rimorsi col suicidio. Anna trova conforto nella madre, che eleva l’amore come supremo sentimento capace di lenire il dolore. Torna dal marito,al quale confessa tutto, e si placa. Egualmente Samuel, che, scoperta la verità, ha ottenuto la prima pagina del suo giornale e ha messo l’America al corrente dei delitti, si sente in pace con la sua coscienza.
Il film di Barman, è serrato e il dramma si stempera nella descrizione dei paesaggi, nei canti tradizionali, nelle nenie e nelle danze che gli africani naturalmente e ritualmente inscenano per esorcizzare a loro volta il dolore. Juliette Binoche, intervenuta a Roma per promuovere il film, ci ha detto di essere rimasta scossa per le torture e le violenze ed ha richiamato anche l’inevitabile senso di colpa, l’inconscio razzismo di noi occidentali e in particolare quello dei francesi per le vicende algerine. E proprio l’Algeria sarà il tema del suo prossimo film, con la regia di Michael Haneke.


<<precedente sommario successivo>>
 
<< indietro
ricerca articoli
accesso utente
login

password

LOGIN>>

Se vuoi
accedere a tutti
gli articoli completi
REGISTRATI

Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!

Le parole di una vita

Cittadino Lex

gg