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Del seguente articolo:

Aprile-Luglio/2018 -
Il brutto fenomeno del bullismo in classe
Comportamenti aggressivi nei ragazzi, ma potrebbe esistere un nesso con i videogiochi violenti?
Antonio Ascolese e Chiara Cognetta (Open School Studi Cognitivi)

Alcune ricerche mostrano che i videogiochi violenti portano a una maggiore aggressività, ma se e come questa si trasformi in violenza agita, è da dimostrare
Media e politica dissertano frequentemente dell’associazione esistente tra l’uso di videogiochi violenti e comportamenti aggressivi in chi ne fruisce. Ma che cosa c’è di vero? I videogiochi violenti hanno una relazione diretta con la violenza oppure no?
Che legame esiste tra il comportamento violento che è possibile adottare all’interno di un videogioco e la nostra morale nella vita di tutti i giorni?
Alcune ricerche hanno mostrato che i videogiochi violenti portano a un aumento dell’aggressività nei giocatori, ma se e come questa aggressività si trasformi in violenza agita, è tutto da dimostrare. Allo stesso modo esistono diversi studi che hanno cercato di indagare in che modo e secondo quali direzioni gli aspetti morali incidano sulle modalità di gioco.
Secondo John Murray, psicologo della Kansas State University, l’esposizione ai videogiochi violenti ha un effetto maggiore rispetto alla violenza veicolata da altre tecnologie, come ad esempio la televisione, a causa di diversi fattori, uno tra tutti l’interattività tipica dei videogiochi.
Da circa due decenni l’uso di videogiochi è un’attività molto diffusa tra gli adolescenti: secondo alcune ricerche, il tempo speso nell’uso di videogiochi sta aumentando rapidamente, ma il dato che preoccupa maggiormente gli studiosi del settore non è legato all’uso massiccio dei videogiochi, ma alla larga diffusione e preferenza di videogiochi violenti.
Secondo un recente report dell’osservatorio AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani, 2012) tra i 20 titoli più venduti nel 2011, la metà propone contenuti cruenti, violenti e aggressivi. Nonostante in generale la ricerca non sia stata in grado di stabilire con decisione quale sia la direzione causale nella relazione tra uso di videogame e comportamento, molti sono stati gli sforzi per avvicinarsi alla risposta.
Chi è violento sceglie videogiochi violenti?
Secondo Thalita Malagò, segretario generale di AESVI, il legame esistente tra videogiochi violenti e tendenza all’aggressività sarebbe infondato. Secondo questa linea di pensiero, l’errore starebbe nel pensare che i principali fruitori di videogames siano bambini e adolescenti e nel non considerare che chi preferisce videogames violenti, può avere una predisposizione pre-esistente alla violenza.
Teoria della catarsi
Un’interessante ricerca realizzata da alcuni ricercatori della Villanova University e della Rutgers University degli Stati Uniti, ha cercato di scoprire se esista una correlazione diretta tra i videogiochi violenti e il numero di crimini violenti. I ricercatori hanno basato il loro studio principalmente su 4 analisi comparative che prevedevano l’osservazione dei seguenti dati:
- Cambiamenti nelle vendite di videogiochi violenti e nel numero di crimini violenti dal 1978 al 2011;
- Andamenti mensili nelle vendite di videogames violenti e crimini violenti dal 2007 al 2011;
- Quantità di ricerche online per guide e soluzioni per i videogiochi violenti;
- Numero di crimini violenti dal 2004 al 2011;
- Crimini violenti in seguito alla pubblicazione di tre videogiochi violenti molto popolari: Grand Theft Auto: San Andreas, Grand Theft Auto IV e Call of Duty: Black Ops.
I risultati di questa ricerca indicano come esista una correlazione inversa tra il numero di crimini commessi e l’uso di videogiochi violenti: secondo i dati ottenuti infatti, ad un aumento del consumo di videogiochi volenti, corrisponderebbe una riduzione di crimini violenti nei sei mesi successivi alla pubblicazione del videogioco.
La spiegazione di questo fenomeno non ha riscontri nella ricerca, ma gli studiosi suggeriscono di poter ipotizzare che l’uso di videogiochi violenti possa funzionare, per chi ne fruisce, come uno strumento catartico: potendo canalizzare l’aggressività nel mondo virtuale, gli utenti sarebbero portati a non farlo nella vita di tutti i giorni. L’altra ipotesi fatta, ha portato i ricercatori a pensare che i 6 mesi successivi all’uscita di un nuovo videogioco, siano quelli usati dagli acquirenti per giocare, stando in casa davanti alla loro consolle e non per le strade, a commettere un reato criminoso o violento.
Se da un lato è possibile ipotizzare che non esista un legame tra la fruizione di videogames violenti e la manifestazione di comportamenti aggressivi (Ferguson & Kilburn, 2009), dall’altro lato molti studi inseriti all’interno della cornice teorica del General Aggression Model (GAM, Anderson et al., 2004; Bushman & Anderson, 2009) ipotizzano che variabili situazionali e comportamenti individuali interagiscano tra loro, generando un’influenza sulla persona, che porta a cambiamenti sul piano emotivo, cognitivo e fisiologico (Anderson & Bushman, 2001). In altre parole, i processi decisionali che conducono al comportamento aggressivo, dipendono dall’interpretazione e della valutazione della situazione in cui il soggetto è inserito.
È emerso che la fruizione di videogiochi violenti comporta un aumento di pensieri aggressivi e di variazioni fisiologiche (come l’aumento del battito cardiaco e della temperatura) successive al gioco, anche se i dati osservabili per lo studio delle conseguenze a lungo termine della fruizione sono carenti. Per valutare se esistano delle differenze negli effetti dovuti alla fruizione di contenuti violenti attraverso media differenti, la ricerca suggerisce almeno tre variabili che permetterebbero di discriminare tra videogames violenti e altri tipi di media col medesimo contenuto, considerando i primi come più dannosi (Anderson et al., 2010; Bushman, 2011).
1. Alcune ricerche (ad esempio, Polman et al., 2008) hanno evidenziato come il giocatore che abbia la possibilità di agire attivamente all’interno di un gioco violento, abbia più possibilità di mettere in atto comportamenti aggressivi successivi alla fruizione, rispetto al giocatore che si è limitato ad osservare il gioco violento. Questo è comprensibile se si pensa che quando si gioca non si è semplici spettatori, ma si ha la possibilità di immergersi nella situazione, si possono prendere delle decisioni, possedendo le redini del gioco.
Inoltre, grazie all’introduzione di nuovi paradigmi basati sul controllo del gioco tramite il movimento del corpo, il grado di immedesimazione aumenta esponenzialmente.
2. Maggiore è la possibilità di personalizzare l’avatar con cui partecipare al videogioco –attribuendogli sembianze simili a quelle del giocatore-, maggiore sarà la possibilità che il partecipante metta in atto comportamenti aggressivi, rispetto al giocatore con un avatar dalle caratteristiche generiche (Fischer, Kastenmüller & Greitemeyer, 2010).
3. Spesso il comportamento violento o aggressivo viene rinforzato dalla presenza di premi e gratificazioni. Tali gratificazioni vengono rilasciate anche nei casi in cui il giocatore metta in atto nel gioco comportamenti distruttivi, aggressivi o cruenti.
Teoria della frustrazione
Un recente studio condotto dell’Università di Oxford dal prof. Andrew Przybylski, insieme ad alcuni colleghi dell’università americana di Rochester tra i quali Richard Ryan, i cui risultati sono stati pubblicati nella prestigiosa testata Journal of Personality and Social Psychology, sposta il focus dell’aggressività dalla ripetizione, alle meccaniche di gioco, al gameplay.
Nello specifico, la ricerca è stata condotta su due gruppi di videogiocatori, ai quali è stato chiesto di utilizzare due versioni diverse di un gioco sparatutto ‘Half-Life 2’: nel primo caso i partecipanti giocavano alla versione originale del gioco, nel secondo caso era stata loro fornita una versione modificata, senza contenuti violenti. Ai giocatori che hanno utilizzato la versione modificata non è stata data la possibilità di accedere a un tutorial preliminare: gli studiosi hanno potuto notare come in questo caso i giocatori dichiaravano di sentirsi incompetenti e non preparati, mostrando un comportamento e un atteggiamento più aggressivo rispetto al gruppo a cui era stata fornita la versione originale, più violenta, del videogame.
Secondo il prof. Przybylski, questo può essere spiegato facendo riferimento al livello di frustrazione provato dai giocatori: più è alto il livello di frustrazione percepita, maggiore sarà il numero di comportamenti aggressivi e violenti messi in atto durante la partecipazione al gioco.
Secondo lo studioso, la necessità di padroneggiare i comandi di gioco (attraverso la preparazione e quindi anche attraverso l’uso di tutorial) è più importante dei contenuti, più o meno violenti, perché gli utenti hanno bisogno di uscire vincitori da una sessione di gioco.
Una nuova generazione di videogiochi
Negli ultimi venti anni, i progressi tecnologici hanno condotto alla creazione di esperienze di gioco sempre più realistiche. Nel tentativo di sviluppare prodotti che siano sempre più vicini al mondo reale e vissuto dagli utenti, sono stati introdotti e commercializzati videogiochi in cui la scelta morale del giocatore riveste un ruolo importante per lo sviluppo e la direzione della storia e del personaggio di gioco stesso. Ad esempio, sia nel gioco Fahreneit il giocatore viene messo di fronte non solo a contenuti violenti, ma anche a delle scelte morali obbligate dalla storia stessa. In questi mondi virtuali è possibile sperimentare ciò che nella vita di tutti i giorni, non solo sarebbe impraticabile, ma potrebbe essere considerato un reato. Infatti in alcuni videogiochi violenti il giocatore si trova immerso in un mondo in cui egli stesso può uccidere, torturare, aggredire, picchiare, etc.
Quello che viene spontaneo chiedersi è in che misura commettere azioni considerate generalmente e nella vita di tutti i giorni come riprovevoli e immorali, possa influire sul giudizio morale nella vita quotidiana. Molti studiosi dell’etica, tra cui McCormik (2001), sostengono che ‘l’umanità oggi sia di fronte ad una nuova serie di questioni morali causati dalla nuova tecnologia’.
Il caso Dayz
Per approfondire quest’ultimo aspetto, si può pensare a DAYZ un videogioco che nel 2014 ha suscitato parecchio scalpore, divenendo famoso per un video diventato poi virale in rete, in cui veniva presentata una scena presa da una sessione del gioco stesso. Nel video diffuso online, vale a dire un estratto di una partita giocata, il giocatore principale decide di mettere due partecipanti al gioco online di fronte a un bivio: uccidere l’altro o salvarsi la vita.
Quando uno dei due partecipanti al duello riesce a fuggire, di fatto non uccidendo il compagno, né facendosi colpire, è il giocatore principale che lo colpisce sparandogli alle spalle. Dall’audio che è possibile ascoltare, si sentono chiaramente le risate degli altri partecipanti, che sottostanno alle regole crudeli e particolarmente aggressive imposte dal giocatore che ha introdotto il duello.
Messaggio pubblicitario Dayz è un gioco online diverso da quelli che prevedono apocalissi alle quali sfuggire o zombie da sconfiggere: in Dayz la minaccia più grande può essere rappresentata dal compagno di gioco, che può decidere di aiutare, salvare la vita o uccidere. Il gioco, sviluppato da Bohemia Interactive, ha suscitato non poco stupore. A tal proposito, alcuni ricercatori dell’Università di Melbourne hanno scritto che ‘a differenza di altri giochi in cui la morte dei personaggi dura uno o due secondi prima della successiva materializzazione, in Dayz la morte è permanente e prevede la scomparsa definitiva del personaggio creato‘.
In altre parole la morte è più reale che in altre realtà virtuali poiché il personaggio, una volta morto, lo è per sempre. Questo da un lato intensifica le interazioni sociali tra i partecipanti, fornendo loro la percezione di poter investire emotivamente di più e permette una più solida immedesimazione, dall’altro lato pone i giocatori di fronte a dilemmi morali realmente percepibili.
Osservando il video della giocata, è possibile notare come il protagonista tanto discusso abbia messo in atto comportamenti violenti ed aggressivi, mostrando scarsa empatia nei confronti degli altri compagni partecipanti al giocoagendo in modo crudele e sadico.
Ryan Rigney, scrittore statunitense che lavora nell’industria dei videogame e autore dell’articolo ‘Why online games make players act like psycopaths‘, di fronte a questo tipo di comportamento virtuale, ha ipotizzato di poter paragonare quanto descritto e visto in quella scena di gioco, al comportamento di personalità psicopatiche.
Cosa si intende per psicopatico
Il termine psicopatico, attualmente in disuso, fa riferimento all’odierna definizione di personalità antisociale, che in linea di massima caratterizza quelle che un tempo venivano presentate, appunto, come personalità psicopatiche. Nel DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013) gli individui che soffrono di questo disturbo vengono descritti come cinici, sprezzanti nei confronti delle emozioni, del mondo e della sofferenza altrui, con scarse o assenti capacità empatiche. Si tratta di persone che faticano a mantenere una solida relazione affettiva, possono divenire irresponsabili e mettere in atto comportamenti violenti, aggressivi, cruenti e crudeli. Possono presentare disforia, lamentare nervosismo e dimostrare scarse capacità di tollerare la noia e l’umore depresso.
Rigney, rifacendosi alla teoria del dott. Adam Perkins del King’s College di Londra, ha evidenziato come una persona che soffre di psicopatia riesce solo superficialmente a empatizzare con l’altro. Secondo Perkins si stratta proprio del tipo di persone che sono in grado di fare quel genere di cose per le quali chiunque avrebbe un rimorso di coscienza, senza, di fatto, provarne nessuno. Sono persone in grado di mettere in atto comportamenti per i quali la maggior parte delle persone non riuscirebbe poi a dormire la notte al solo pensiero di averli compiuti, mentre al contrario uno psicopatico, dormirebbe come un bambino.
Generalizzando, le persone considerabili psicopatiche o con disturbo di personalità antisociale, mettono in atto comportamenti aggressivi, violenti o crudeli senza alcun rimorso, senza nessuna emozione di colpa. Possiedono uno stile cognitivo che non pone alcun accento sul valore e sul trattamento equo degli altri. Questo non significa che siano persone più violente di altre. Si tratta di persone solite e avvezze al pensiero logico, che agiscono calcolando metodicamente le conseguenze delle loro azioni, di cui secondo Perkins, riconoscono le conseguenze (anche e soprattutto negative).
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Autore dell’articolo è il prof. Antonio Ascolese, Psicologo, PhD in Scienze della Formazione e della Comunicazione. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, con una tesi sulle relazioni tra il costrutto psicologico dell’ottimismo, la regolazione emotiva e la ruminazione mentale. Ha collaborato per diversi anni con il CESCOM (Centro Studi per le Scienze della Comunicazione), dove si è occupato di ricerca in vari ambiti (psicologia della cultura, psicologia del benessere, psicologia e nuove tecnologie, etc.) e di attività didattica.


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